Arrivati a Lima il 5 agosto, ci accoglie una città dal cielo grigio. Tra gli edifici viaggiano polveri sottili di inquinamento e una nebbia, che addensa l’umidità dell’oceano, calca la città. Questo anno per il fenomeno del Niño fa più caldo del solito, tanto da non dover ricorrere agli abiti invernali.
Di fronte all’edificio dove alloggiamo, un vecchio convento dietro alla casa presidenziale, si apre la vista di uno dei monti che a partire dalla grande migrazione del ‘50 è stato coperto di case colorate. Si tratta di insediamenti eretti in pendenza occupando il deserto.
Le nostre guide di ASPEm, Gianni e Anna, ci propongono come uscita domenicale una visita al “Museo della memoria”. A pochi isolati dalla spiaggia, un po’ incastonato sui declivi coperti di edere che scendono verso il mare, il museo si regge con umiltà, spalle alla città, di fronte l’oceano. Una targa a destra dell’ingresso ricorda il suo magnate benefattore, il presidente Alan Garcia che, sotto suggerimento del premio Nobel Mario Vargas Llosa, lo fece costruire nel 2005.
Dentro ci aspettano Jaime, un pedagogo amico di Gianni e Noelia, la sua compagna. Jaime Sanpen, conoscitore profondo del conflitto armato interno e del postumo lavoro di scrittura e tessitura di una memoria nazionale delle vittime, portato avanti dal Comitato di Verità e Riconciliazione (CVR), ci introduce al museo con queste parole: “Preferisco che vi dividiate in gruppetti di due o tre persone massimo: vorrei che questo percorso attraverso il museo vi stimolasse emozioni e reazioni profonde. Non sarebbe possibile comprendere, o avvicinarsi a questi fatti se li trattaste solo come informazioni!”.
Da che entriamo nelle sale espositive, il dialogo viene assunto come strumento pedagogico imprescindibile, non solo per tessere con noi una memoria storica, ma anche come punto in comune per praticare la democrazia. Stabiliamo un dialogo anche con Sofia Macher Batanero, sociologa e costituente del CVR. La troviamo nella prima sala con un gruppo cospicuo di persone e da quel momento, in modo un po’ frammentato, seguiamo le sue testimonianze che parlano di omissioni del conflitto armato da parte dello stato, ma anche dell’ignoranza dei cittadini e cittadine limeñi, la loro indifferenza nei confronti di quanto stava accadendo nelle province. Dall’informe del CVR, arrivano le voci di più di 69000 vittime (morti e desaparecidos) per il 70% povere e indigene. Di donne violentate e stuprate. Arriva anche il riconoscimento di una colpa statale: la mancata tempestività nel rispondere alle violenze del gruppo senderista e del MRTA e la perpetrata violenza sulle stesse popolazioni già distrutte dal mandato teorico marxista-leninista-maoista di Sendero Luminoso.
Tra le sale mi soffermo su un murales che dice: “Vincular la vida con la politica cotidiana” (Collegare la vita con la politica quotidiana).
Sento da dei grandi schermi appesi al soffitto le voci abbandonate degli umili, vedo una democrazia lontana dal popolo, solo immagine e spettacolo di principi e valori democratici.
Il colonialismo persiste, riproducendosi. Silvia Rivera Cusicanqui, sociologa boliviana, lo definisce come “una struttura, ethos, una cultura che si riproduce nel quotidiano nelle sue oppressioni e silenziamenti sebbene i successivi intenti di trasformazione radicale che propugnano le élite politiche e intellettuali, in versione liberale, populista, marxista o indigenista.” (2009)
Parliamo di una democrazia che, come prassi politica, non è immune all’espressione di un potere secolare, una cultura della violenza, razzista, coloniale, classista, patriarcale, capitalista, estrattivista, interiorizzata da secoli e parte della memoria collettiva.
Alla fine della visita ci riuniamo in cerchio. Le nostre impressioni sono tante, diverse, amare e confuse. Trovarsi di fronte a tanta complessità è spossante.
Mi viene in mente Albert Camus, quando di fronte a una realtà tanto più complessa e polimorfa di quanto potesse afferrare l’intelligenza umana, si divertiva a pensare all’orgoglio che mostrava l’essere umano (perlomeno occidentale) nel credere di poter comprendere tutto.
E poi come diceva Jaime, la comprensione è anche comprensione emotiva, a volte non spiega ma invoglia a farsi ancora più domande. Così ce ne torniamo a casa, lontane e lontani dall’aver compreso, ma con un fare più umile e aperto ad ascoltare e vivere, nelle sue infinite contraddizioni, la realtà che ci circonda.
